sabato 31 dicembre 2011

Odio il capodanno

   Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.

   Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione.

   Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito.

   Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

   Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere.
   Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni.
Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.
   E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 o il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita.

   Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.

   Perciò odio il capodanno.
   Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale.
   Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse.

   Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano.

   Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.


Antonio Gramsci (quello della via)

martedì 27 dicembre 2011

La Nazionale Etica

    Stramaledizioni sul commissario tecnico della Nazionale Cesare Caudio Prandelli, che in questi giorni ha dimostrato tutta la sua miserevole pochezza. La Repubblica Popolare Scatologica ed il suo allenatore Andrea Margheritoni non si faranno prendere per il culo dal neofita pallonaro della questione morale.
   A dire il vero io ero il più contento quando Prandelli è diventato commissario tecnico. Non solo per il fatto che finalmente non avrei più visto a capo della Nazionale il pasticcione scaccolatore di Viareggio, ma anche perché Prandelli mi sembra un bravo allenatore. Anzitutto, Prandelli allenatore è stata una invenzione di Peppino Pavone, che è uno che ci prende, e infatti ci ha preso. Poi, per fortuna, Prandelli non ha imparato la lezione sul catenaccio dei suoi allenatori di quando giocava (Trapattoni, Sonetti e Mondonico), ma da Arrigo Sacchi. Prandelli, infatti, è uno di quegli allenatori che non ci sarebbero stati senza le lezioni di Sacchi sulla zona e sul calcio totale. Certo, preferivo il primo Prandelli, quello del Verona, del Venezia e del Parma, al secondo, quello della Fiorentina e della Nazionale (che ha rinunciato alla difesa a 4), e tra i sacchiani moderati gli preferisco il mio amico Delio Rossi. Ma Prandelli andava comunque benissimo. Fino alla stronzata di Natale.
   Perché mentre guardavo Studio Aperto per sapere quanto quest’anno gli italiani avrebbero speso mediamente per il cenone di Natale, è passata una notizia sconvolgente: il commissario tecnico ha promesso che a fine febbraio convocherà a Coverciano Simone Farina del Gubbio, il giocatore che ha rifiutato la cagnotta di centinaia di migliaia di euro per non vendersi una partita. Tu quoque Cesare…
   Immediatamente sono andato a denunciare ai vigili urbani Scorcelletti del settimo piano, che ha la veranda abusiva e non condonato, ma il mio atto non ha impressionato Prandelli e così non mi è arrivata nessuna convocazione e non ne hanno parlato i giornali (mentre credevo che per quel gesto mi sarebbe stata affidata la fascia di capitano, quella – tanto per capirci – che oggi appartiene allo scommettitore compulsivo Buffon).
   Allora, visto che, come diceva Pasolini, io so, io faccio i nomi.
   Il commissario tecnico etico Prandelli, prima di fare l’allenatore, faceva il giocatore di calcio, esattamente come Simone Farina. Forse solo un po’ meglio, visto che a un certo punto lo compra la Juventus, che non è una Juventus qualunque, ma è quella di Zoff Gentile Cabrini… scudetti, coppe Italia, coppa delle coppe, coppa dei campioni, coppa uefa e intercontinentale. Qualche dubbio su qualche vittoria (tipo il gol di Turone), ma comunque si tratta di una squadra di stelle di prima grandezza. E Cesarone (o Claudione, come vi pare) ne ha fatto parte per ben sei anni.
   Allora, in quei tempi c’erano le partite vendute, il calcio scommesse, il doping e tutto il resto, esattamente come oggi. Ed esattamente come oggi ogni tanto veniva fuori qualche cosa, pagavano in tre o quattro sfigati, e si ripartiva più puliti di prima. Cesarone tutte queste cose le sapeva, non venga a raccontarmi storie.
   Facciamo un esempio: la mitica Bologna - Juventus 1 – 1 del 13 gennaio del 1980. Pochi mesi prima che scoppiasse uno dei più grossi ed infettati brufoli del calcio scommesse, con niente meno che i gioielli della Nazionale Rossi e Giordano coinvolti.
   Quella partita era palesemente truccata. I giornali sportivi lo avevano già scritto il giorno dopo. Uno squallido pareggio combinato.
   Ovviamente quando combini un pareggio combini uno 0 – 0, nessuno segna, nessuno prende gol, mica un 4 – 4. Però accidentalmente la Juventus segnò, con il barone salentino Causio (attuale commentatore televisivo) che fece un tiro alla viva il parroco che il portiere bolognese Zinetti (attuale preparatore dei portieri del Torino) non parò: 0 – 1. Lo stesso Causione andò preoccupato verso la panchina e chiese a Trapattoni (attuale commissario tecnico dell’Irlanda): “cosa facciamo?”. Ancora un po’ e si legge il labiale dalla televisione. I bolognesi, capitanati da Colomba (attuale allenatore del Parma), si stavano incazzando ed allora lo stopper bianconero Brio (futuro vice di Trapattoni ed attuale commentatore televisivo) fece una bella autorete e tutti a casa con il pareggio combinato.
   Questo è quello che sanno tutti, pure le pietre. Il segreto di Pulcinella, con alla fine dell’anno i calciatori del Bologna squalificati e quelli della Juventus graziati, che l’anno successivo vincono lo scudetto grazie all’annullamento (per fuorigioco inesistente) di una rete decisiva da parte dell’arbitro Bergamo, futuro designatore dell’arbitro Ceccarini a Juventus – Inter del 1998, nonché codesignatore corrotto sgamato a Calciopoli del 2006 (con i video di lui che truccava i sorteggi).
   Ma torniamo a Cesarone. Anche se tutti sanno che Bologna – Juventus del 1980 era truccata, da una decina d’anni c’è la prova scritta.
   Carlo Petrini da Monticiano (compaesano di Luciano Moggi) è un ex calciatore professionista. Con un curriculum di tutto rispetto: cresciuto nel Genoa, centravanti del Milan di Nereo Rocco, poi del Torino e della Roma di Liedholm. Mica Paoloni. A Petrini però non è andata bene come a tanti altri. Gli è andata male, come a tanti altri ancora. Squalificato per il calcioscommesse, si prende tutta la colpa perché è a fine carriera, ma poi nessuno se lo fila più, non come Paolo Rossi e Manfredonia. E il doping assunto in quantità industriale pare che sia stata la causa dei tumori che lo hanno accompagnato negli ultimi quindici anni. E tutto ciò assieme ad una serie di problemi personali non indifferenti.
   Ad un certo punto Petrini scoppia e vuota il sacco. Scrive tutto in un libro che si fa tanto per togliere dalla circolazione, ma che interessa e diventa un best seller: Nel fango del dio pallone (Kaos Edizioni). E combinazione Petrini è il centravanti del Bologna in quel 1980. E nel libro descrive tutta la combina, che è come l’avevamo immaginata, ma con alcuni dettagli in più: la partita era truccata perché la Juvantus stava scivolando in zona retrocessione, visto che si era venduta le ultime tre partite per scommetterci sopra (tra cui quelle contro l’Ascoli). E già che era truccata, i giocatori del Bologna ci hanno scommesso. Inoltre Petrini spiega che la partita l’hanno combinata direttamente i dirigenti e che sullo 0 – 1, Bettega dice ai bolognesi che la responsabilità di farli segnare se la prende lui.
   Quella di Petrini è una vera e propria accusa scritta con nomi e cognomi, firmata. E nessuno, in dieci anni, si è mai premurato di smentire Petrini che ha scritto queste parole:

Io ero destinato alla panchina, quando uscii dagli spogliatoi incrociai Trapattoni. Gli raccomandai il rispetto dell'accordo, e lui mi disse che potevamo stare tranquilli, che non c'era nessun problema. Con Trapattoni avevo giocato nel Milan e nel Varese, sapevo che era una persona seria. I miei compagni , nel sottopassaggio prima di entrare sul terreno di gioco, fecero lo stesso con alcuni giocatori juventini (che quel giorno erano: Zoff, Cuccureddu, Cabrini, Gentile, Brio, Scirea, Causio, Prandelli, Tavola, Bettega, Marocchino). Gli dissero che avevamo scommesso sul pari, uno di loro rispose: «Noi oggi non abbiamo scommesso, il colpo l'abbiamo fatto già due domeniche fa con l'Ascoli».

   Epilogo: il calcio è zozzo, lo sapevo anche prima che beccassero Doni. E pure prima che uscisse il libro di Petrini. È ovvio che preferirei il calcio pulito, ma pazienza. Alla fine io sono pure craxiano ex post e le questioni morali mi stanno sulle palle. Quindi l’ho sempre saputo che Prandelli non veniva dalla montagna del sapone, pure quando mi piacevano il suo Verona, il suo Venezia ed il suo Parma. Ora io non pretendo che Prandelli faccia harakiri buttandosi da un grattacielo per essere stato un giocatore corrotto come tutti gli altri. Ma che almeno non prenda tutti per il culo. Quello no.

martedì 20 dicembre 2011

Onori al Caro Compagno Kim Jong Il

   E' morto un uomo che sapeva cosa significa governare. Imparate, italiani di merda. Imparate.
   Olocausto nucleare sui giornalisti italiani, che hanno oscurato il più possibile i servizi sulla morte del Caro Compagno Kim Jong Il, togliendolo dai titoli dei telegiornali delle otto, e parlandone come di un pazzo sanguinario pornografo.
   Avevano paura di fare vedere che il popolo coreano lo piangeva. E di dover spiegare perchè lo piangeva. Quanto pagate d'affitto, pecoroni italiani? Perchè in Corea la casa te la regala lo stato quando ti sposi. E non ci sono disoccupati e le strade sono pulite ed ordinate e tutto il contrario di come è qui.
   Viva il Popolo e l'Esercito Coreano! Viva le parate militari, i missili e i passi romani! Viva il Partito del Lavoro Coreano! Viva il Juche! Viva l'invincibile pensiero del Presidente Kim Il Sung! W il Caro Compagno Kim Jong Il! Viva la Repubblica Popolare Democratica di Corea!

venerdì 16 dicembre 2011

Hanno arrestato Maurizio Pistocchi, per associazione a delinquere finalizzata alla diffusione dell’odio

    E chi lo avrebbe mai detto. Pistocchi è la classica persona che non credevi che potesse fare del male a qualcuno e meno che mai odiare. E poi che cazzo vuol dire “finalizzata alla diffusione dell’odio”? Che mo l’odio è un reato? E poi cos’è la diffusione dell’odio, stampavano un quotidiano con scritto chi va odiato? Perché io mi ricordo che quando quel minorato mentale di Tartaglia (che poi è stato assurto a nuovo Robespierre) ha tirato la statuetta a quel minorato mentale di Berlusconi (che poi è stato licenziato da capo del governo perché liberalizzava troppo lentamente), quel minorato mentale di Travaglio (che poi è rimasto al suo posto a pontificare) aveva teorizzato il “diritto all’odio”. Che mo Travaglio può odiare e Pistocchi no?
   Certo, come moviolista valeva poco: a Pressing non si capiva mai se il rigore o il fuorigioco ci fosse o meno. E poi arrivava Sivori e discordava con tutti. Se per tutti era rigore, per lui no. Se per tutti era gol regolare, per lui era fuorigioco. Però da lì ad arrestare Pistocchi… e poi non me lo facevo di destra. Forse perché romagnolo, e i romagnoli me li vedo tutti vetero PCI, poi transitati al PD senza avere capito di essere passati dall’altra parte.
   Allora indago e scopro che in realtà non è Maurizio Pistocchi, ma è Maurizio Boccacci. E che Pistocchi è ancora libero e non c’entra niente con tutto quello che ho scritto fin’ora. E che Maurizio Boccacci è un noto estremista di destra e non sa fare la moviola (come anche Pistocchi) e soprattutto non è romagnolo, ma solo romano. Quindi Boccacci non ha mai conosciuto Omar Sivori, almeno credo, e nemmeno De Luca, Tosatti, Bartoletti e Vianello (che però aveva fatto la Repubblica Sociale).
   Ora, io mi chiedo, perché arrestare una persona solo perché non ha mai conosciuto De Luca, Tosatti e Vianello? Chi era veramente Maurizio Boccacci?
   E qui la rete e la stampa si scatenano nella fiera delle stronzate stile wikipedia.
   Anzitutto Maurizio Boccacci non è Maurizio Pistocchi. Sono due persone diverse e non c’entrano niente l’una con l’altra. E questa è l’unica cosa ben chiara. Per il resto è un proliferare di piccole biografie che hanno preso tutte le sigle neofasciste degli ultimi trent’anni e le hanno messe assieme, con un po’ di stragi, aggressioni e fatti da stadio, che non guastano mai.
   Alla fine, se scavi, Boccacci sembra pure uno dei meno peggiori, un onesto – politicamente inteso – addetto ai lavori, che di militanza ne ha fatta tanta. Qualche scivolone nell’istituzionalità l’ha avuto anche lui, come quando tra il 2004 e il 2008 ha fatto parte della Fiamma Tricolore (combinazione proprio nel periodo in cui il segretario nazionale è stato parlamentare europeo, e quindi nel periodo in cui nel partito sono entrati dei soldi). Ma a parte quello, se vai a vedere, Boccacci sembra veramente il meno peggiore. Non si capisce bene che lavoro faccia o se abbia mai lavorato, ma a parte quello. I giornali e soprattutto La Repubblica, lo additano come sodale di Gianluca Iannone, il capo di casa Pound e Gianluca Castellino. Tutti e tre hanno fatto parte della Fiamma Tricolore, nel periodo in cui c’erano i soldi e tutti e tre, chi prima, chi dopo, se ne sono andati quando i soldi sono finiti. Ma solo Boccacci ha scelto – almeno a vedere da fuori – di re imboccare la strada della militanza dura e pura. Castellino, invece, che si chiama in realtà Giuliano, ma i giornali lo chiamano Gianluca, è stato veramente il delfino di Boccacci, ma – dopo essere stato federale, commissario, segretario, podestà di qualunque possibile movimento neofascista istituito a Roma – oggi regge il moccolo ad Alemanno e fa il tifo non più per la Roma, ma per israele e i sionisti. Nei forum di estrema destra è oggetto di grasse risate e ne parlano tutti come di un deficiente analfabeta. Almeno Boccacci è rimasto filopalestinese, mentre Gianluca Castellino, come detto è diventato sionista, e casa Pound è per i due popoli e due stati (che è una formula ambigua degna della solo della merda, non a caso utilizzata da Massimo D'Alema, che è stao il primo a parlare di "equivalenza").
   Dicono che Boccacci e i suoi stavano progettando di ammazzare il rabbino capo di Roma. E che non avrebbero mai voluto ammazzare Pistocchi, che peraltro non li conosce. E che li hanno beccati perché ne stavano parlando allegramente al telefono. E questa è una stronzatona mega che getta una luce sinistra su tutta la vicenda…ma che cazzo, stai per ammazzare uno degli uomini più potenti d’Italia e lo dici per telefono? Nemmeno Pistocchi avrebbe mai fatto un errore del genere. E per conto mio nemmeno Boccacci. È come quando nel processo per gli assassini di Marta Russo (che per inciso non erano Scattone e Ferraro, che invece sono stati condannati), il pm ha fatto ispezionare l’agenda di Scattone, come se veramente uno avesse scritto “ore nove: uccidere Marta Russo”.
   E nel frattempo mattino cinque, pomeriggio cinque, tg cinque, studio aperto e tutticazzicheselifregano stanno dedicando servizi ed interviste alle pittoresche riserve indiane neofasciste, che diligentemente ci cascano e vengono a spiegare tutto il loro pensiero in televisione, quando è evidente che il governo di banchieri, che loro a parole osteggiano da sempre, li sta usando come scudo perché si parli d’altro.

giovedì 8 dicembre 2011

La vita sarà stata anche bella (contenti voi), ma il film era proprio una cagata

   Fiorello vuole stravincere, vincere non gli basta. Vuole annichilire il già mediocre Grande Fratello di quest’anno, che sembra già non avere più niente da dire, soprattutto dopo l’uscita del sosia di Luis Enrique (che è riuscito a durare meno dell’originale). E per raddoppiare gli ascolti non c’è niente di meno che proporre a quei cerebrolesi delle famiglie auditel l’ospite per cui l’Italia è famosa nel mondo, che purtroppo non è né Paolo Rossi, né Rocco Siffredi, ma Roberto Benigni. L’attore più simpatico…dopo il weekend.
   L’assessore reggino del Pdl Luigi Tuccio lo ha definito sulla sua pagina di feisbuc: comunista, ebreo e miliardario. Buoni gli ultimi due commenti. Il primo purtroppo non è vero, né lo è mai stato, probabilmente nemmeno quando si presentava alle feste dell’Unità improvvisando comizi strampalati (almeno all’epoca faceva ridere). Purtroppo Tuccio si è scusato. Con gli ebrei, che sdegnati hanno replicato, ma non con i comunisti, che russano troppo forte perché qualcosa li svegli.
   Benigni ha fatto le sue battute simpaticissime su Berlusconi che non è onesto e che scopa le minorenni, il che conferma i miei dubbi sulle tare mentali degli italiani. Che hanno smesso di ridere alle battute di Alvaro Vitali che da trent’anni fa sempre Pierino, ma non hanno smesso di apprezzare Benigni che da dieci anni esatti ripete le stesse battute su Berlusconi che aveva tirato fuori nella campagna elettorale del 2001 (che lui ha fatto per Rutelli e sottolineo Rutelli), durante la famosa intervista con Enzo Biagi.
   E Fiorello prima che l’attore più simpatico dopo il weekend faccia la sua comparsata serale, ci ricorda che Benigni ha vinto ben due premi oscar. E tutti per lo stesso film, che all’epoca mi aveva fatto cagare a spruzzo e che per l’occasione ho rivisto per vedere se ero stato troppo severo. E non lo ero stato. E’ vero che gli americani sono un po’ tarati anche loro, e lo sono evidentemente pure quelli che assegnano l’oscar, se si pensa che lo avevano dato a Mediterraneo, dove i soldatini italiani del 1941 fanno gli stessi discorsi dei gruppettari contestatori di trent’anni dopo (e con lo stesso linguaggio, neologismi compresi). Ma due oscar a quella cagata di film solo perché parla dell’olocausto (perché se lo avesse ambientato durante il genocidio armeno del 1915 il film sarebbe sparito dalle sale più velocemente di Pierino ritorna a scuola) mi sembrano troppi.
   Premetto che quando sono andato a vedere La vita è bella non ero ancora prevenuto contro il ragionier Benigni come lo sono ora, che ragioniere non è più perché gli hanno dato mille lauree ad honorem e lo hanno pure candidato al Nobel per la letteratura solo per avere letto Dante. Roba che Gassman e Carmelo Bene dovevi farli almeno rettori della Bocconi.
   Comunque, come dicevo, io nel 1998 non ce l’avevo ancora a morte con Benigni, anzi lo trovavo abbastanza bravo. Avevo già capito che non era geniale, e avevo già capito che più rilevante era il ruolo che dava nei film a quel cane di moglie che si ritrova e più il film sarebbe peggiorato. Però lo apprezzavo abbastanza. Soprattutto mi intrigava il tentativo di misurarsi a distanza con Chaplin, lanciato ne Il mostro. Mi pareva delicato e ben condotto. Ma Benigni ha strafatto, e nel 1998 ha puntato niente meno che a Il grande dittatore. Ora: mi si dirà che non è così perché a scuola ti insegnano che il nazismo è finito mezz’ora fa e quindi c’è pericolo che ritorni anche mentre sto scrivendo, ma a me far passare nel 2000 i tedeschi per dei criminali mentecatti senza minima possibilità di redenzione, mi pare un infierire sui vinti, che nel frattempo sono pure già morti. Altra cosa era Il grande dittatore. Vuoi mettere? Fai uscire un film così nel 1940, quando Hitler era padrone del mondo. Ci vogliono i coglioni quadrati. E poi è divertente la variante del tema del doppio (stile Tutta la città ne parla, poi ripresa altre mille volte, pure da Benigni in Johnny Stecchino!), il fatto di far parlare Mussolini in romagnolo con i modi rudi da contadino, e i sosia spassosi di Hess e Goering. Ma purtroppo questa non è la recensione di quel capolavoro di Chaplin, e quindi riparliamo di Benigni.
   Allora, Benigni è un aspirante libraio ebreo che dice cazzate in toscano, ma un po’ meglio di Pieraccioni, che invece fa proprio cagare, e di Ceccherini che poi proprio non ne parliamo.
   Ha un amico con il quale fa sempre il giochino della telecinesi (tale e quale al grande Troisi. Plagio? No, citazione! Ah scusate).
   A un certo punto si rompono i freni della macchina e lui fa segno alla folla con il braccio teso di spostarsi e la folla risponde credendo che lui stia facendo il saluto romano (e questa l’ha copiata dal grande Buster Keaton, Due marines e un generale, 1965).
   Poi i fascisti mettono fuori legge gli ebrei e dipingono di giallo il cavallo di suo zio, e lui incontra una maestra (come chi? Nicoletta Braschi) fidanzata con un fascista e perciò infelice (perché sa già che quelli perderanno la guerra), e se ne innamora. Per rivederla corre attorno all’isolato e quando la rivede non ha più fiato (altra scopiazzatura di Troisi, pardon “citazione”).
   Poi la maestra va alla cena di fidanzamento in cui tutti parlano dei costi che sopporta uno stato per sopprimere un handicappato. In Italia. Nel 1938. Tutti i giorni! Alla fine della serata la maestra di innamora di Benigni e vissero felici e contenti, ma non per sempre, solo fino all’olocausto.
   A proposito. Ma le leggi razziali italiane del 1938 proibivano i matrimoni misti, e lei in quanto maestra è una dipendente pubblica?
   Ma che cazzo c’entra quella è la storia vera!  
   All’improvviso piove dal cielo l’olocausto e tutti vengono deportati dalle SS. Solo che la Braschi non è ebrea, ma vuole farsi deportare ugualmente e le SS anziché tirarle una raffica di mitra in pancia e liberare il cinema italiano una volta per tutte da quell’attrice di merda che è, la deportano come voleva.
   A proposito, ma l’ufficiale delle SS ha la bandoliera come gli ufficiali italiani, e poi la targa dell’autocarro è sbagliata, si vede che non è esagonale, ma è una targa rettangolare con due piccoli lembi tagliati.
   Non importa! Quella è la storia vera e non glie ne frega un cazzo a nessuno.  
   Benigni ha un figlio di sei anni al quale fa credere che la deportazione è un gioco e se si nasconde e non rompe il cazzo le SS gli regalano un carro armato. Tutto molto credibile. L’unica scena decente, quella in cui Benigni traduce dal tedesco è un rozzo plagio di Sturmtruppen. Il critico Stefano Disegni di “Ciak” (il solo che abbia avuto il coraggio di dire che sto film è una cazzata) ha anche fatto notare che il tedesco strillone assomiglia ad Andreasi.
   A proposito, ma Benigni non lo ha mai visto Il giardino dei Finzi Contini di De Sica?
   E mo che c'entrano i cinepanettoni? Questo è Benigni, lui legge Dante.  
   A questo punto gli sceneggiatori avevano due finali a disposizione, quello bello e quello brutto. Nel finale bello i tedeschi finivano lo Zyklon B e per sopperire chiamavano Pierino che faceva una scoreggia così forte da uccidere tutti, tedeschi, ebrei e Nicoletta Braschi. Nel finale brutto, invece, Benigni si fa ammazzare facendo credere al figlio che stanno ancora giocando, con nel frattempo le SS che incendiano tutto. Poi al mattino il figlio è sopravvissuto, potrà tornare a casa e raccontare la sua storia credibilissima a tutto il mondo, e Auschwitz viene liberata da uno Sherman americano, che il bambino superstite crede che sia il suo premio, e soprattutto, purtroppo, la Braschi resta viva (a sottolineare il male del nazismo, che ammazza tutti, tranne chi se lo merita).
   A proposito, ma ad Auschwitz non è che ci sono entrati i russi? Anzi proprio i sovietici? Perché io mi ricordo che mi avevano detto così, che c’entra lo Sherman, quello è americano, al massimo alcuni li avevano prestati agli inglesi, qualcuno ai francesi e pure ai cinesi di Chang Kai Shek, ma gli Sherman russi, anzi sovietici, proprio no. Non è per caso che bisognava dimostrare al mondo che gli Stati Uniti sono l’unica nazione al mondo ad essere indispensabile così come ci ha spiegato Bill Clinton, il puttaniere amico fraterno di Roberto Benigni e Massimo D’Alema, che di lì a pochi mesi avrebbe bombardato la Serbia perché anche lì c’era bisogno di un intervento in difesa della democrazia e per quello hanno dato il premio oscar a questo film girato col culo e pieno di errori storici, e che siccome Stalin è morto ormai era vacante il posto di liberatore di Auschwitz e lo ha preso Bill Clinton?
   Ma basta, hai rotto il cazzo, questo è un film; alla gente è piaciuto e ha pure pianto. Poi chi te l’ha detto che è andata come dici tu? Che mo tu ne sai più di Benigni? Quello ha vinto l’oscar, anzi due. E poi comunque, resta la storia, il sacrificio che il padre ha fatto per il figlio, quello fa piangere.   
   Cioè nel senso che il padre ha finto che ad Auschwitz siano entrati gli americani al posto dei sovietici per dimostrare al figlio che era giusto bombardare Belgrado l’anno successivo, tanto il 1999 era ancora nel ventesimo secolo e in quel secolo non ci sarebbe stato altro genocidio al di fuori dell’olocausto (come hanno spiegato Fiamma Nirenstein e Elena Lowenthal su La stampa, quando si parlava del genocidio armeno). E tutta sta storia fa proprio piangere, e per consolarmi dopo mi sono visto Paulo Roberto Cotechinho, almeno lì i riferimenti sono giusti, non fanno giocare Altobelli nel Milan e Falcao nel Genoa.