giovedì 8 dicembre 2011

La vita sarà stata anche bella (contenti voi), ma il film era proprio una cagata

   Fiorello vuole stravincere, vincere non gli basta. Vuole annichilire il già mediocre Grande Fratello di quest’anno, che sembra già non avere più niente da dire, soprattutto dopo l’uscita del sosia di Luis Enrique (che è riuscito a durare meno dell’originale). E per raddoppiare gli ascolti non c’è niente di meno che proporre a quei cerebrolesi delle famiglie auditel l’ospite per cui l’Italia è famosa nel mondo, che purtroppo non è né Paolo Rossi, né Rocco Siffredi, ma Roberto Benigni. L’attore più simpatico…dopo il weekend.
   L’assessore reggino del Pdl Luigi Tuccio lo ha definito sulla sua pagina di feisbuc: comunista, ebreo e miliardario. Buoni gli ultimi due commenti. Il primo purtroppo non è vero, né lo è mai stato, probabilmente nemmeno quando si presentava alle feste dell’Unità improvvisando comizi strampalati (almeno all’epoca faceva ridere). Purtroppo Tuccio si è scusato. Con gli ebrei, che sdegnati hanno replicato, ma non con i comunisti, che russano troppo forte perché qualcosa li svegli.
   Benigni ha fatto le sue battute simpaticissime su Berlusconi che non è onesto e che scopa le minorenni, il che conferma i miei dubbi sulle tare mentali degli italiani. Che hanno smesso di ridere alle battute di Alvaro Vitali che da trent’anni fa sempre Pierino, ma non hanno smesso di apprezzare Benigni che da dieci anni esatti ripete le stesse battute su Berlusconi che aveva tirato fuori nella campagna elettorale del 2001 (che lui ha fatto per Rutelli e sottolineo Rutelli), durante la famosa intervista con Enzo Biagi.
   E Fiorello prima che l’attore più simpatico dopo il weekend faccia la sua comparsata serale, ci ricorda che Benigni ha vinto ben due premi oscar. E tutti per lo stesso film, che all’epoca mi aveva fatto cagare a spruzzo e che per l’occasione ho rivisto per vedere se ero stato troppo severo. E non lo ero stato. E’ vero che gli americani sono un po’ tarati anche loro, e lo sono evidentemente pure quelli che assegnano l’oscar, se si pensa che lo avevano dato a Mediterraneo, dove i soldatini italiani del 1941 fanno gli stessi discorsi dei gruppettari contestatori di trent’anni dopo (e con lo stesso linguaggio, neologismi compresi). Ma due oscar a quella cagata di film solo perché parla dell’olocausto (perché se lo avesse ambientato durante il genocidio armeno del 1915 il film sarebbe sparito dalle sale più velocemente di Pierino ritorna a scuola) mi sembrano troppi.
   Premetto che quando sono andato a vedere La vita è bella non ero ancora prevenuto contro il ragionier Benigni come lo sono ora, che ragioniere non è più perché gli hanno dato mille lauree ad honorem e lo hanno pure candidato al Nobel per la letteratura solo per avere letto Dante. Roba che Gassman e Carmelo Bene dovevi farli almeno rettori della Bocconi.
   Comunque, come dicevo, io nel 1998 non ce l’avevo ancora a morte con Benigni, anzi lo trovavo abbastanza bravo. Avevo già capito che non era geniale, e avevo già capito che più rilevante era il ruolo che dava nei film a quel cane di moglie che si ritrova e più il film sarebbe peggiorato. Però lo apprezzavo abbastanza. Soprattutto mi intrigava il tentativo di misurarsi a distanza con Chaplin, lanciato ne Il mostro. Mi pareva delicato e ben condotto. Ma Benigni ha strafatto, e nel 1998 ha puntato niente meno che a Il grande dittatore. Ora: mi si dirà che non è così perché a scuola ti insegnano che il nazismo è finito mezz’ora fa e quindi c’è pericolo che ritorni anche mentre sto scrivendo, ma a me far passare nel 2000 i tedeschi per dei criminali mentecatti senza minima possibilità di redenzione, mi pare un infierire sui vinti, che nel frattempo sono pure già morti. Altra cosa era Il grande dittatore. Vuoi mettere? Fai uscire un film così nel 1940, quando Hitler era padrone del mondo. Ci vogliono i coglioni quadrati. E poi è divertente la variante del tema del doppio (stile Tutta la città ne parla, poi ripresa altre mille volte, pure da Benigni in Johnny Stecchino!), il fatto di far parlare Mussolini in romagnolo con i modi rudi da contadino, e i sosia spassosi di Hess e Goering. Ma purtroppo questa non è la recensione di quel capolavoro di Chaplin, e quindi riparliamo di Benigni.
   Allora, Benigni è un aspirante libraio ebreo che dice cazzate in toscano, ma un po’ meglio di Pieraccioni, che invece fa proprio cagare, e di Ceccherini che poi proprio non ne parliamo.
   Ha un amico con il quale fa sempre il giochino della telecinesi (tale e quale al grande Troisi. Plagio? No, citazione! Ah scusate).
   A un certo punto si rompono i freni della macchina e lui fa segno alla folla con il braccio teso di spostarsi e la folla risponde credendo che lui stia facendo il saluto romano (e questa l’ha copiata dal grande Buster Keaton, Due marines e un generale, 1965).
   Poi i fascisti mettono fuori legge gli ebrei e dipingono di giallo il cavallo di suo zio, e lui incontra una maestra (come chi? Nicoletta Braschi) fidanzata con un fascista e perciò infelice (perché sa già che quelli perderanno la guerra), e se ne innamora. Per rivederla corre attorno all’isolato e quando la rivede non ha più fiato (altra scopiazzatura di Troisi, pardon “citazione”).
   Poi la maestra va alla cena di fidanzamento in cui tutti parlano dei costi che sopporta uno stato per sopprimere un handicappato. In Italia. Nel 1938. Tutti i giorni! Alla fine della serata la maestra di innamora di Benigni e vissero felici e contenti, ma non per sempre, solo fino all’olocausto.
   A proposito. Ma le leggi razziali italiane del 1938 proibivano i matrimoni misti, e lei in quanto maestra è una dipendente pubblica?
   Ma che cazzo c’entra quella è la storia vera!  
   All’improvviso piove dal cielo l’olocausto e tutti vengono deportati dalle SS. Solo che la Braschi non è ebrea, ma vuole farsi deportare ugualmente e le SS anziché tirarle una raffica di mitra in pancia e liberare il cinema italiano una volta per tutte da quell’attrice di merda che è, la deportano come voleva.
   A proposito, ma l’ufficiale delle SS ha la bandoliera come gli ufficiali italiani, e poi la targa dell’autocarro è sbagliata, si vede che non è esagonale, ma è una targa rettangolare con due piccoli lembi tagliati.
   Non importa! Quella è la storia vera e non glie ne frega un cazzo a nessuno.  
   Benigni ha un figlio di sei anni al quale fa credere che la deportazione è un gioco e se si nasconde e non rompe il cazzo le SS gli regalano un carro armato. Tutto molto credibile. L’unica scena decente, quella in cui Benigni traduce dal tedesco è un rozzo plagio di Sturmtruppen. Il critico Stefano Disegni di “Ciak” (il solo che abbia avuto il coraggio di dire che sto film è una cazzata) ha anche fatto notare che il tedesco strillone assomiglia ad Andreasi.
   A proposito, ma Benigni non lo ha mai visto Il giardino dei Finzi Contini di De Sica?
   E mo che c'entrano i cinepanettoni? Questo è Benigni, lui legge Dante.  
   A questo punto gli sceneggiatori avevano due finali a disposizione, quello bello e quello brutto. Nel finale bello i tedeschi finivano lo Zyklon B e per sopperire chiamavano Pierino che faceva una scoreggia così forte da uccidere tutti, tedeschi, ebrei e Nicoletta Braschi. Nel finale brutto, invece, Benigni si fa ammazzare facendo credere al figlio che stanno ancora giocando, con nel frattempo le SS che incendiano tutto. Poi al mattino il figlio è sopravvissuto, potrà tornare a casa e raccontare la sua storia credibilissima a tutto il mondo, e Auschwitz viene liberata da uno Sherman americano, che il bambino superstite crede che sia il suo premio, e soprattutto, purtroppo, la Braschi resta viva (a sottolineare il male del nazismo, che ammazza tutti, tranne chi se lo merita).
   A proposito, ma ad Auschwitz non è che ci sono entrati i russi? Anzi proprio i sovietici? Perché io mi ricordo che mi avevano detto così, che c’entra lo Sherman, quello è americano, al massimo alcuni li avevano prestati agli inglesi, qualcuno ai francesi e pure ai cinesi di Chang Kai Shek, ma gli Sherman russi, anzi sovietici, proprio no. Non è per caso che bisognava dimostrare al mondo che gli Stati Uniti sono l’unica nazione al mondo ad essere indispensabile così come ci ha spiegato Bill Clinton, il puttaniere amico fraterno di Roberto Benigni e Massimo D’Alema, che di lì a pochi mesi avrebbe bombardato la Serbia perché anche lì c’era bisogno di un intervento in difesa della democrazia e per quello hanno dato il premio oscar a questo film girato col culo e pieno di errori storici, e che siccome Stalin è morto ormai era vacante il posto di liberatore di Auschwitz e lo ha preso Bill Clinton?
   Ma basta, hai rotto il cazzo, questo è un film; alla gente è piaciuto e ha pure pianto. Poi chi te l’ha detto che è andata come dici tu? Che mo tu ne sai più di Benigni? Quello ha vinto l’oscar, anzi due. E poi comunque, resta la storia, il sacrificio che il padre ha fatto per il figlio, quello fa piangere.   
   Cioè nel senso che il padre ha finto che ad Auschwitz siano entrati gli americani al posto dei sovietici per dimostrare al figlio che era giusto bombardare Belgrado l’anno successivo, tanto il 1999 era ancora nel ventesimo secolo e in quel secolo non ci sarebbe stato altro genocidio al di fuori dell’olocausto (come hanno spiegato Fiamma Nirenstein e Elena Lowenthal su La stampa, quando si parlava del genocidio armeno). E tutta sta storia fa proprio piangere, e per consolarmi dopo mi sono visto Paulo Roberto Cotechinho, almeno lì i riferimenti sono giusti, non fanno giocare Altobelli nel Milan e Falcao nel Genoa.

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